Osapp: “Armerie invisibili nelle carceri, quando la legalità si ferma al cancello”
“Spirale di negligenza del Dap”

ITALIA - Riceviamo e pubblichiamo da Leo Beneduci, del sindacato di polizia penitenziaria Osapp.
Osapp: “Spirale di negligenza del Dap”
Esiste un confine invisibile ma drammaticamente reale nel nostro Paese: quello che separa la fermezza della giustizia dalla tolleranza dell’abbandono. Da una parte le strade, dove finalmente il Procuratore Gratteri riconosce pubblicamente che un coltello vale quanto una pistola nelle mani della criminalità giovanile.
Dall’altra le carceri, dove quella stessa lama diventa inspiegabilmente un dettaglio trascurabile, un’inezia burocratica in un sistema che ha smarrito il senso della propria missione. E’ per questo che dico e ripeto che “le carceri non sono discariche della legalità” perché è esattamente quello che sono diventate.
Mentre il Procuratore Gratteri illumina l’opinione pubblica sulla pericolosità dei coltelli nelle bande giovanili, dietro le sbarre di tutta Italia si consumano quotidianamente scene che farebbero impallidire i peggiori film di genere. Punteruoli affilati come rasoi, lame forgiate con l’ingegno della disperazione, telai delle finestre trasformati in stiletti: un arsenale artigianale che cresce nell’indifferenza di chi dovrebbe impedirlo con adeguate iniziative sul territorio nazionale.
Ma il paradosso più lacerante è quello giuridico. Fuori dalle mura, giustamente, un coltello è un’arma e chi la porta risponde penalmente con tutto il rigore della legge. Dentro, quello stesso oggetto diventa quasi folklore carcerario, una bravata tollerata, un episodio che si risolve con qualche giorno di esclusione dalle attività in comune.
Come se il cancello del penitenziario fosse una frontiera morale oltre la quale la legalità perde forza e significato. Non è solo questione di coerenza normativa, è questione di sopravvivenza per chi lavora in prima linea. I Poliziotti penitenziari nelle trincee delle sezioni detentive si trovano quotidianamente faccia a faccia con detenuti che brandiscono armi letali quali le gambe divelte di tavoli e di sgabelli chissà perché ancora disponibili mentre si inchiodano le brande al pavimento, caffettiere all’interno di calzini bandite come clave e sempre più spesso le lame costruite artigianalmente.
L’Amministrazione continua a consentire l’acquisto di bombolette del gas nell’era delle piastre a induzione ed è come fornire munizioni a chi già possiede le armi, in una spirale che trasforma ogni sezione detentiva in un laboratorio di morte. L’episodio di Secondigliano di qualche giorno fa non è cronaca, è profezia.
Sette agenti intervenuti a mani nude per salvare un collega, due di loro finiti con denti rotti e ossa fratturate. Questa è la realtà quotidiana di chi serve lo Stato dietro le sbarre: combattere la violenza armata con il coraggio e null’altro, accompagnati solo da qualche rara parola di vicinanza e da una miriade di affermazioni offensive anche su social e certa stampa, sempre con il rischio di eccedere secondo le ricostruzioni di qualche Procura per cui, alla fine, può essere assai meglio soccombere.
Nel frattempo i tribunali assolvono con indulgenza inspiegabile chi viene scoperto con coltelli di “ottima fattura artigianale” – questa l’amara ironia delle motivazioni – come se la perizia nella costruzione di armi sia da considerarsi un’attenuante anziché un’aggravante. Il carcere è diventato la retrovia impunita di una legalità mutilata, il luogo dove ciò che è reato in strada diventa tollerabile tra le celle.
Sapete cosa penso? Se un coltello in strada è una minaccia, in carcere è sempre un’arma da offesa e solo uno “stolto” può pensarla diversamente. Non c’è spazio per l’intimidazione psicologica quando si è rinchiusi in pochi metri quadrati con chi quella lama l’ha forgiata per usarla.
Accadrà presto, temiamo, che l’armeria invisibile delle carceri faccia sentire il proprio “peso” con eloquente drammaticità, occorre solo comprendere dove, come e chi ne resterà vittima. Servirebbero arresti in flagranza, processi per direttissima, sanzioni immediate. Servirebbero controlli strutturali che impediscano l’accesso ai materiali di assemblaggio.
Servirebbero magistrati che comprendano che un punteruolo di venti centimetri nelle mani di un detenuto violento non è diverso da una pistola nelle mani di un rapinatore. Ma soprattutto servirebbe la stessa determinazione che Nicola Gratteri ha saputo infondere nella lotta alla criminalità di strada.
La legalità non può fermarsi al cancello delle carceri e Noi dell’O.S.A.P.P. lo stiamo gridando da anni, ai ben retribuiti ipoudenti di Largo Daga e di via Arenula come agli altrettanto ben retribuiti “ipoacusici” di Palazzo Madama e di Palazzo Montecitorio. La legalità deve attraversare i blockhouse delle carceri, entrare nelle sezioni detentive, ripulire le armerie che si sono create all’ombra dell’abbandono e dell’incompetenza.
La legalità deve consentire alle “vittime predestinate e sacrificabili” della Polizia Penitenziaria di poter prevenire e difendersi con norme, strumenti e professionalità adeguati alle gravi emergenze in corso. Altrimenti le nostre prigioni rimarranno quello che sono già diventate: territori franchi dove la legge dello Stato cede il passo alla legge del più forte che in carcere come nella società è assai spesso il più delinquente. In questa guerra contro chi ha trasformato la detenzione in un’officina di morte Noi dell’O.S.A.P.P. non molleremo mai! Fraterni Saluti a tutti.