ALLARME SOCIALE

"Squid Game" fa paura anche nell'alessandrino

Anche bimbi piccoli emulano i “giochi mortali” della serie Netflix. La Fondazione «Carolina» vara una petizione per cancellare la fiction sud coreana.

"Squid Game" fa paura anche nell'alessandrino
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Ci sono casi anche vicino a noi. La comunità degli educatori è allertata, ma il vero problema sono i troppi genitori inadeguati.

«Squid Game» è una serie televisiva sud coreana che sta spopolando su Netflix. Gli sceneggiatori hanno ipotizzato un “reality” in cui 456 persone, fragili o fallite, accettano, per cercare un riscatto, di partecipare ad un “contest” in cui vengono proposti giochi infantili come “Un, due, tre, stella” dove, però, la penalità per chi sbaglia è la morte immediata.
Questa serie di Netflix sta avendo effetti preoccupanti sui giovani e addirittura bambini, al punto che è attiva una petizione per bloccarne la visione. A proporla è la «Fondazione Carolina», la Onlus dedicata a Carolina Picchio, prima vittima di cyberbullismo in Italia e che tiene d’occhio il web e i media.
«Ci riteniamo una realtà propositiva lo confermano le collaborazioni con i colossi del web nell’ottica della prevenzione e del supporto ai ragazzi e alle famiglie - spiega il segretario generale della onlus, Ivano Zoppi - ma di fronte allo sgomento di mamme e maestre non bastano i buoni propositi, serve un’azione concreta».
Il vero problema riscontrato è che la serie, vietata ai minori di 14 anni, viene in realtà visionata anche dai bambini che, in teoria non dovrebbero potervi accedere. Questo perché i “parental control” di fatto non funzionano, in quanto, nelle famiglie reali, accade che i minori usino i profili dei genitori per aggirare i divieti. Tutto ciò è in definitiva un’espressione della profonda crisi della genitorialità.

Casi anche vicino a noi

I casi segnalati sono stati diversi, in Piemonte due molto gravi nel Torinese e nell’Alessandrino abbastanza grave, in cui bambini e ragazzi emulano il gioco trasponendolo nelle loro attività, con comportamenti aggressivi.
«Mio figlio ha picchiato la sua amichetta mentre giocava a Squid Game». Dice una delle mamme rivoltesi a «Carolina» e un’altra: «A mia figlia hanno rovesciato lo zaino fuori dalla finestra dell’aula perché ha perso a Squid Game, non vuole più uscire di casa». Le bambine sarebbero le più vessate perché, più dei maschi, spesso rifiutano di giocare a un gioco così violento, rimediando anche degli schiaffi (un gesto che avviene nella serie per disonorare chi non vuole giocare).

La petizione su Change.org

Tornando a «Squid Game» il rimedio proposto da Fondazione Carolina è drastico: proibire la visione di questa serie in Italia. «Sulla piattaforma Change. org è possibile firmare la petizione per bloccare questo contenuto, micidiale per gli utenti più giovani e fragili” - annuncia Ivano Zoppi - Come Fondazione Carolina ci siamo già attivati con l’AgCom, mentre abbiamo chiesto di incontrare il Garante Infanzia e Adolescenza per rappresentare il disagio vissuto da tante famiglie a fronte di questo fenomeno». Zoppi giudica gli effetti preoccupanti sulle nuove generazioni e osserva: «Prima di capirne i motivi, però, è importante comprendere come mai, ancora una volta, quegli argini a tutela dei più piccoli non hanno retto». Ci si chiede infatti se davvero ha ancora senso indicare un limite di età alla visione di un contenuto.

La socialità delegata al web

Ma si può davvero censurare una serie tv? «La risposta è no - precisa laconicamente Zoppi - Perché abbiamo delegato al web la socialità dei nostri ragazzi, perché abbiamo smesso di essere il filtro tra l'infanzia e l’età consapevole, creando da una parte dei piccoli adulti, ma dall’altra degli eterni adolescenti, che si formano sui social e faticano a trovare la propria indipendenza».
Esiste dunque un vuoto educativo, colmato dalla possibilità, anche per i bambini, di accedere in totale autonomia a qualsiasi contenuto. Dunque i grandi assenti sono proprio i genitori. Per cui c’è il rischio di una “educazione social”. Del resto il fenomeno Squid Game pervade il web attraverso TikTok, YouTube e altre piattaforme.
«Tutto ciò - conclude Ivano Zoppi - insegna che il rispetto delle regole non ha senso se queste non sono applicate su un piano culturale condiviso, sull’insieme di valori e princìpi alla base di una comunità, che non ha più radici, se non qualche hashtag».

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